
Si dice spesso che una stagione si giudica dal terzo episodio. Dietro a
quello che ormai è diventato un luogo comune, c’è un sostanzioso fondo
di verità. In una stagione, specie quando (come accade sovente nelle tv
via cavo) è composta da 10-13 puntate, il terzo episodio può risultare
fondamentale e Breaking Bad con “Hazard Pay” tenta di dimostrarlo.
Da dove nasce tale convinzione? In una stagione, per
svariati motivi, il primo episodio porta con sé delle peculiarità
supplementari che lo discostano leggermente dagli altri. Anche se non si
tratta di un pilota, ma di una premiere di una delle stagioni successive alla prima, il primo atto ha sempre qualcosa di eccezionale. In genere tende a stupire, puntando a una ri-fidelizzazione del bacino spettatoriale dal quale è stato lontano. Così è stato per “Live Free or Die”, in particolare per quanto riguarda il flashforward
iniziale. É una conseguenza piuttosto naturale che il secondo episodio
parta sbilanciato, con l’onere di mettere equilibrio alla stagione,
essendo un po’ la controparte della premiere. “Madrigal” lo fa
benissimo, badando soprattutto a riannodare i fili della trama, tornando
sul rapporto Walt/Jesse e approfondendo il personaggio di Mike in modo
da rendere credibile la sua maggiore centralità nella stagione.
A questo punto, dopo aver assistito ad una sorta di dittico,
si arriva al terzo appuntamento con la curiosità di sapere cosa davvero
succederà in quest’annata, come si arriverà a quel futuro visto in
apertura e perché. “Hazard Pay” è chiamato dunque a costruire il domani,
a tracciare le traiettorie narrative principali e a presentare i
conflitti drammaturgici ed esistenziali che saranno protagonisti delle
trame orizzontali. Possiamo dire sin da subito che ci riesce alla perfezione.
La
scelta di Gilligan e compagni questa volta è rischiosa, ma non per
questo difensiva (come a prima vista potrebbe sembrare), anzi, a mio
avviso si tratta di un’impostazione narrativa pregna di coraggio e ambizione.
Per certi versi si assiste a un ritorno alle origini, ma con una lunga
serie di variazioni sul tema quali la presenza di Mike, il ruolo
dominante di Walt e, soprattutto, un registro stilistico che, nel
raccontare nuovamente la stessa storia, gioca con le conoscenze dello
spettatore, puntando sull’ironia e sulle ricorrenze caratteriali dei
personaggi – vedi ad esempio tutta la sequenza della scelta del luogo in
cui tornare a produrre la metanfetamina e l’atteggiamento sempre più
sardonico di Saul.
Più in generale, il cuore narrativo sta nel tentativo
di mantenere l’equilibrio tra due livelli: quello secondo cui questa
quinta e ultima stagione appare un reboot, un nuovo inizio, una sorta di tabula rasa
sulla quale ripercorre le impronte di un tempo; e quello che lega
questa ripartenza al passato e la rigetta nella melma nebulosa e fangosa
dei conflitti tra i personaggi che ancora giacciono lì, in attesa di
esplodere. L’anomala e nuova triade nasce già satura,
carica di tensioni mature e pronte a incrinare il precario equilibrio in
qualunque momento (in questo senso la scena della spartizione dei soldi
è emblematica). La sfida sta dunque nel saper galleggiare tra queste
spinte contrapposte, costruendo una stagione in cui i legami, quasi
geometrici, del nuovo “gruppo” devono far fronte agli strascichi del
passato che tentano ad ogni occasione di impedire qualunque ripartenza e
di aprire ferite vecchie e nuove. In questo episodio abbiamo la
conferma – sebbene avessimo già un forte sospetto – che rapporti come
quello tra Walt e Saul, Walt e Mike, Jesse e Mike, Saul e Mike, e
soprattutto, Walt e Jesse, sono ancora tutti da sviscerare. Il come è
tutto da vedere, ma di sicuro sappiamo che le matasse di tali conflitti
verranno dipanate grazie all’intreccio di più linee temporali: quella
che porta al flashforward, quella riguardante il presente e quella che dal passato zampilla appena ne ha la possibilità.
“Will you shut up? Shut the hell up. Shut up! Shut up! Shut up!”
Breaking Bad
non dimentica l’importanza dei personaggi secondari e, se ha avuto modo
di trattare Hank nell’episodio scorso (riservandosi di parlarne anche
in questo), stavolta è il turno delle due donne, Marie e Skyler. Partita
un po’ in sordina all’inizio della serie, quest’ultima ha poi sorpreso
tutti tra la terza e la quarta
stagione con un’evoluzione rapida e
radicale, che l’ha vista sedotta come il marito dal potere
e dall’illegalità, e per un momento quasi persuasa che lei e il suo
coniuge potessero essere dei novelli Bonnie e Clyde. Con l’inizio di
questa stagione, però, si assiste ad un’ulteriore trasformazione, che
vede Skyler avvolta dal terrore (“I’m scared of you”),
paralizzata dalla non stabilità del marito, dalla consapevolezza di non
conoscere più la persona che ha sposato, ma di intuirne precisamente
l’instabilità e la pericolosità. Tale mutazione è resa credibile dalle
doti recitative di Anna Gunn, straordinaria sia nelle scene più teatrali
(come quella con Marie), sia quando recita in maniera minimalista,
lasciando al body language il compito di esprimere la paura che
la sovrasta – è perfetta nel comunicare i brividi che prova a stare in
camera da sola con il marito nei finali dei due precedenti episodi.
La ripresa di Marie è puramente strumentale,
ma non per questo inutile, anche perché gli autori non esitano ad
approfondirne la caratterizzazione. Inizialmente la donna funge da
parafulmini, da cavia diegetica per saggiare la trasformazione di Skyler
e successivamente si pone come la misura delle capacità di Walt, che,
senza il minimo scrupolo, usa la breve liaison tra la moglie e
Ted per passare agli occhi di Marie come la vittima, riuscendo a
occultare le ragioni del crollo nervoso di Skyler.
“You need a name for them, you call them Yes, sir and No, sir.”
Breaking Bad ha nel suo format l’uso di un cold open
di circa quattro, cinque minuti prima di lasciare il posto alla sigla e
poi al resto della puntata. Sin dall’esordio della serie abbiamo
imparato che le tipologie di questi prologhi sono tendenzialmente due:
una di carattere più marcatamente estetizzante; l’altra più narrativa.
Ovviamente queste due modalità sono quasi sempre intrecciate e le due
dimensioni convivono in una miscela che, facendo sempre ricorso ad ampie
dosi di ironia, in maniera sfumata propende a volte per l’una e a volte
per l’altra direzione. In questo caso la scelta è abbastanza precisa:
ad aprire un episodio strutturalmente fondamentale come questo c’è Mike,
ci sono le sue modalità di lavoro, c’è la sua figura statuaria, c’è il
suo personaggio in tutte le sue sfaccettature – senza per questo
rinunciare all’aspetto più mordace reso dalla visione spiazzante di Mike
in giacca e cravatta.
Già dalle precedenti due stagioni era chiaro che il
suo personaggio era molto più di uno scagnozzo del boss, che aveva
ancora tanto da dare alla serie, sia rispetto agli sviluppi del plot,
sia per quanto riguarda il suo misterioso passato. Da quando poi, nella
scorsa annata, il suo rapporto con Jesse ha preso una piega che tocca da
vicino le corde dell’amicizia, è stato chiaro che il suo ruolo sarebbe
diventato sempre più centrale. Ora, con la morte di Gus, anche la sua
figura si carica di connotazioni ulteriori, da una parte sovrapponendosi
a quella del capo di un tempo, ma dall’altra distanziandosi per tutta
una serie di caratteristiche specifiche che lo rendono unico. Mike è,
analogamente a Gus, un personaggio estremamente carismatico,
ma dalla sua vanta il rapporto con Jesse, che lo porterà senza dubbio a
mischiare pericolosamente affari con affetti (ricordiamo che in “Salud”
Jesse gli ha salvato la vita). In più Mike si porta dietro una
condizione personale decisamente diversa da quella dell’ex capo: quella
di un presente vissuto in funzione una nipotina alla quale vuole
assicurare un futuro.
“Maybe he flew too close to the sun, and got his throat cut”
Come sottolineato nella recensione del
primo episodio, le aspettative di questa ultima stagione sono tutte su
loro due, Walt e Jesse. C’è troppo sommerso, troppi nodi che ancora
devono venire al pettine. La morte di Jane, il tentato avvelenamento di
Brock, le continue manipolazioni, la questione della
sigaretta “truccata”, non possono passare inosservate e sorge sempre più
chiara la convinzione che, se non già in questa prima, di sicuro nella
seconda parte della stagione i conflitti più grossi esploderanno proprio
tra i due protagonisti, in una maniera molto simile a quanto accaduto
qualche anno fa per il finale di The Shield.
Il bellissimo inizio di “Madrigal”,
successivo al prologo, tenta di mettere carne al fuoco riportando alla
luce la questione della sigaretta perduta, ma solo (il solo è
ovviamente riferito a questo episodio, sappiamo tutti che quel veleno
tornerà) per parlare dello stato del rapporto tra i due e del potere che
ancora ha Walt su Jesse. Tutto però si innesca con l’arrivo di Andrea e
il figlio Brock a casa mentre Walt e Jesse sono intenti a parlare
d’affari. Ancora una volta Breaking Bad dimostra che per
scrivere una storia avvincente non serve spiegare tutto e fa leva sulla
memoria di noi spettatori inducendoci poco alla volta a ricordare la
colpa di Walt nei confronti di Jesse, in modo da avere tutto sotto
controllo quando assistiamo all’incontro, e, in maniera quasi
hitchcockiana, vivere la stretta di mano tra Walt e il ragazzino in
balia di una tensione costruita alla perfezione.
Immediatamente dopo aver cucinato la metanfetamina, Walt e Jesse sono protagonisti di quella che è probabilmente la scena madre
dell’episodio, quella che scuote maggiormente la situazione tra i due:
mentre sono seduti sul divano a guardare la tv, con una regia che dosa
perfettamente le inquadrature in campo medio con macchina fissa e il
fondamentale campo e contro campo, Walt inizia un discorso sulla verità e
l’importanza di questa all’interno della famiglia. Alludendo al
rapporto tra Jesse e Andrea e facendo riferimento a quello tra lui e
Skyler, Walt dimostra come per essere un maestro della menzogna bisogna
conoscere l’importanza della verità e, così come fa con Marie rispetto
alla questione Ted, simula e dissimula un atteggiamento in cui le
dimensioni di verità e onestà sono le prerogative principali. Allo stato
attuale più che un rapporto è un massacro, è
l’annientamento psicologico di un giovane inerme da parte di un genio
del male. Ma Jesse ha dimostrato più volte di avere risorse nascoste
sorprendenti e il passato irrisolto tra loro è lì pronto a innescarle,
anche perché, per citare una famosa frase di Cechov: “se in un romanzo
compare una pistola, prima o poi deve sparare”.
“Listen, Walter: just beacuse you shot Jesse James, don’t make you Jesse James”.
Walter White è morto. Lo si sapeva da tempo.
Oggi però è evidente che anche Heisenberg è morto e non è un caso se
ormai da tanto tempo non compare il famoso cappello,
simbolo iconografico quasi fumettistico della trasformazione in
Heisenberg. Quello che c’è ora è un personaggio profondamente cambiato
dalla morte di Gus, che per certi versi ha inghiottito e fatto proprio,
un personaggio la cui vittoria nella battaglia contro l’avversario più
duro ha avuto conseguenze devastanti sul suo ego, sui suoi
comportamenti, sulla sua percezione di sé. La sua figura ha raggiunto
dei livelli di complessità i cui paragoni possono contarsi sulle dita
delle mani, in special modo dopo questa virata verso il male, quello
assoluto, quello radicale, quasi ingenuo, apparentemente innato, banale e
quotidiano, di arendtiana memoria.
Sebbene gli autori tentino di alleggerire i toni
sottolineando i peccati di Walt inquadrandolo mentre mangia una mela
come una Eva dei giorni nostri, la sua condizione è tutt’altro che
semplice e tutt’altro che agevole da interpretare. Dopo aver ucciso Gus,
Walt si trasforma in un gangster, non tanto per ciò
che concretamente fa, ma per il modo di rapportarsi al prossimo. Una
dimostrazione lampante si ha quando, relazionandosi ad uno degli addetti
alla disinfestazione, invece di ringraziarlo per aver disattivato la
telecamera nascosta nell’appartamento, si limita semplicemente a
chiedergli il nome, come farebbe qualsiasi “capobastone” di qualsiasi
clan e come siamo stati abituati a vedere in film e serie televisive
aventi come soggetto la mafia italo-americana.
A rincarare la dose ci pensa una scrittura anche in
questo caso eccezionale, che raggiunge una delle vette dell’episodio
nella scena in cui lui e il figlio guardano il finale di Scarface
di Brian De Palma. Tale accostamento non pone solo di fianco Walt e il
gangsterismo cinematografico, ma associa direttamente i due
protagonisti, entrambi disperati nella loro follia, entrambi schiavi del proprio ego, entrambi dei dead man walking. Quello
che impressiona è la tranquillità con cui Mr. White opera il male, la
semplicità con cui nel finale parla a Jesse e, utilizzando il
riferimento allo sgozzamento di Viktor da parte di Gus in “Box Cutter”, minaccia il giovane socio terrorizzandolo.
Una puntata eccellente sotto tutti i punti di vista,
dall’intreccio narrativo alle interpretazioni degli attori, ma che si
distingue soprattutto per la regia di Adam Bernstein, che sforna scelte
stilistiche di alta scuola: l’inquadratura in campo medio che ritrae
Walt e Brock sul divano che si guardano; la dissolvenza incrociata tra
gli spari della mitragliatrice di Tony Montana e la macchina conta
soldi; la capacità di miscelare i generi dell’audiovisivo dimostrata con
la sequenza della produzione di metanfetamina, una sorta di divertente e
incalzante video musicale.
Di Attilio Palmieri
Fonte: seriangolo.it
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