sabato 15 marzo 2014

Breaking Bad – 5×03 Hazard Pay (Recensione)


 


Si dice spesso che una stagione si giudica dal terzo episodio. Dietro a quello che ormai è diventato un luogo comune, c’è un sostanzioso fondo di verità. In una stagione, specie quando (come accade sovente nelle tv via cavo) è composta da 10-13 puntate, il terzo episodio può risultare fondamentale e Breaking Bad con “Hazard Pay” tenta di dimostrarlo.
Da dove nasce tale convinzione? In una stagione, per svariati motivi, il primo episodio porta con sé delle peculiarità supplementari che lo discostano leggermente dagli altri. Anche se non si tratta di un pilota, ma di una premiere di una delle stagioni successive alla prima, il primo atto ha sempre qualcosa di eccezionale. In genere tende a stupire, puntando a una ri-fidelizzazione del bacino spettatoriale dal quale è stato lontano. Così è stato per “Live Free or Die”, in particolare per quanto riguarda il flashforward iniziale. É una conseguenza piuttosto naturale che il secondo episodio parta sbilanciato, con l’onere di mettere equilibrio alla stagione, essendo un po’ la controparte della premiere. “Madrigal” lo fa benissimo, badando soprattutto a riannodare i fili della trama, tornando sul rapporto Walt/Jesse e approfondendo il personaggio di Mike in modo da rendere credibile la sua maggiore centralità nella stagione.
A questo punto, dopo aver assistito ad una sorta di dittico, si arriva al terzo appuntamento con la curiosità di sapere cosa davvero succederà in quest’annata, come si arriverà a quel futuro visto in apertura e perché. “Hazard Pay” è chiamato dunque a costruire il domani, a tracciare le traiettorie narrative principali e a presentare i conflitti drammaturgici ed esistenziali che saranno protagonisti delle trame orizzontali. Possiamo dire sin da subito che ci riesce alla perfezione.
La scelta di Gilligan e compagni questa volta è rischiosa, ma non per questo difensiva (come a prima vista potrebbe sembrare), anzi, a mio avviso si tratta di un’impostazione narrativa pregna di coraggio e ambizione. Per certi versi si assiste a un ritorno alle origini, ma con una lunga serie di variazioni sul tema quali la presenza di Mike, il ruolo dominante di Walt e, soprattutto, un registro stilistico che, nel raccontare nuovamente la stessa storia, gioca con le conoscenze dello spettatore, puntando sull’ironia e sulle ricorrenze caratteriali dei personaggi – vedi ad esempio tutta la sequenza della scelta del luogo in cui tornare a produrre la metanfetamina e l’atteggiamento sempre più sardonico di Saul.
Più in generale, il cuore narrativo sta nel tentativo di mantenere l’equilibrio tra due livelli: quello secondo cui questa quinta e ultima stagione appare un reboot, un nuovo inizio, una sorta di tabula rasa sulla quale ripercorre le impronte di un tempo; e quello che lega questa ripartenza al passato e la rigetta nella melma nebulosa e fangosa dei conflitti tra i personaggi che ancora giacciono lì, in attesa di esplodere. L’anomala e nuova triade nasce già satura, carica di tensioni mature e pronte a incrinare il precario equilibrio in qualunque momento (in questo senso la scena della spartizione dei soldi è emblematica). La sfida sta dunque nel saper galleggiare tra queste spinte contrapposte, costruendo una stagione in cui i legami, quasi geometrici, del nuovo “gruppo” devono far fronte agli strascichi del passato che tentano ad ogni occasione di impedire qualunque ripartenza e di aprire ferite vecchie e nuove. In questo episodio abbiamo la conferma – sebbene avessimo già un forte sospetto – che rapporti come quello tra Walt e Saul, Walt e Mike, Jesse e Mike, Saul e Mike, e soprattutto, Walt e Jesse, sono ancora tutti da sviscerare. Il come è tutto da vedere, ma di sicuro sappiamo che le matasse di tali conflitti verranno dipanate grazie all’intreccio di più linee temporali: quella che porta al flashforward, quella riguardante il presente e quella che dal passato zampilla appena ne ha la possibilità.

    “Will you shut up? Shut the hell up. Shut up! Shut up! Shut up!”

 Breaking Bad non dimentica l’importanza dei personaggi secondari e, se ha avuto modo di trattare Hank nell’episodio scorso (riservandosi di parlarne anche in questo), stavolta è il turno delle due donne, Marie e Skyler. Partita un po’ in sordina all’inizio della serie, quest’ultima ha poi sorpreso tutti tra la terza e la quarta
stagione con un’evoluzione rapida e radicale, che l’ha vista sedotta come il marito dal potere e dall’illegalità, e per un momento quasi persuasa che lei e il suo coniuge potessero essere dei novelli Bonnie e Clyde. Con l’inizio di questa stagione, però, si assiste ad un’ulteriore trasformazione, che vede Skyler avvolta dal terrore (“I’m scared of you”), paralizzata dalla non stabilità del marito, dalla consapevolezza di non conoscere più la persona che ha sposato, ma di intuirne precisamente l’instabilità e la pericolosità. Tale mutazione è resa credibile dalle doti recitative di Anna Gunn, straordinaria sia nelle scene più teatrali (come quella con Marie), sia quando recita in maniera minimalista, lasciando al body language il compito di esprimere la paura che la sovrasta – è perfetta nel comunicare i brividi che prova a stare in camera da sola con il marito nei finali dei due precedenti episodi.
La ripresa di Marie è puramente strumentale, ma non per questo inutile, anche perché gli autori non esitano ad approfondirne la caratterizzazione. Inizialmente la donna funge da parafulmini, da cavia diegetica per saggiare la trasformazione di Skyler e successivamente si pone come la misura delle capacità di Walt, che, senza il minimo scrupolo, usa la breve liaison tra la moglie e Ted per passare agli occhi di Marie come la vittima, riuscendo a occultare le ragioni del crollo nervoso di Skyler.

You need a name for them, you call them Yes, sir and No, sir.”
Breaking Bad ha nel suo format l’uso di un cold open di circa quattro, cinque minuti prima di lasciare il posto alla sigla e poi al resto della puntata. Sin dall’esordio della serie abbiamo imparato che le tipologie di questi prologhi sono tendenzialmente due: una di carattere più marcatamente estetizzante; l’altra più narrativa. Ovviamente queste due modalità sono quasi sempre intrecciate e le due dimensioni convivono in una miscela che, facendo sempre ricorso ad ampie dosi di ironia, in maniera sfumata propende a volte per l’una e a volte per l’altra direzione. In questo caso la scelta è abbastanza precisa: ad aprire un episodio strutturalmente fondamentale come questo c’è Mike, ci sono le sue modalità di lavoro, c’è la sua figura statuaria, c’è il suo personaggio in tutte le sue sfaccettature – senza per questo rinunciare all’aspetto più mordace reso dalla visione spiazzante di Mike in giacca e cravatta.
Già dalle precedenti due stagioni era chiaro che il suo personaggio era molto più di uno scagnozzo del boss, che aveva ancora tanto da dare alla serie, sia rispetto agli sviluppi del plot, sia per quanto riguarda il suo misterioso passato. Da quando poi, nella scorsa annata, il suo rapporto con Jesse ha preso una piega che tocca da vicino le corde dell’amicizia, è stato chiaro che il suo ruolo sarebbe diventato sempre più centrale. Ora, con la morte di Gus, anche la sua figura si carica di connotazioni ulteriori, da una parte sovrapponendosi a quella del capo di un tempo, ma dall’altra distanziandosi per tutta una serie di caratteristiche specifiche che lo rendono unico. Mike è, analogamente a Gus, un personaggio estremamente carismatico, ma dalla sua vanta il rapporto con Jesse, che lo porterà senza dubbio a mischiare pericolosamente affari con affetti (ricordiamo che in “Salud” Jesse gli ha salvato la vita). In più Mike si porta dietro una condizione personale decisamente diversa da quella dell’ex capo: quella di un presente vissuto in funzione una nipotina alla quale vuole assicurare un futuro.

              “Maybe he flew too close to the sun, and got his throat cut” 
Come sottolineato nella recensione del primo episodio, le aspettative di questa ultima stagione sono tutte su loro due, Walt e Jesse. C’è troppo sommerso, troppi nodi che ancora devono venire al pettine. La morte di Jane, il tentato avvelenamento di Brock, le continue manipolazioni, la questione della sigaretta “truccata”, non possono passare inosservate e sorge sempre più chiara la convinzione che, se non già in questa prima, di sicuro nella seconda parte della stagione i conflitti più grossi esploderanno proprio tra i due protagonisti, in una maniera molto simile a quanto accaduto qualche anno fa per il finale di The Shield.
Il bellissimo inizio di “Madrigal”, successivo al prologo, tenta di mettere carne al fuoco riportando alla luce la questione della sigaretta perduta, ma solo (il solo è ovviamente riferito a questo episodio, sappiamo tutti che quel veleno tornerà) per parlare dello stato del rapporto tra i due e del potere che ancora ha Walt su Jesse. Tutto però si innesca con l’arrivo di Andrea e il figlio Brock a casa mentre Walt e Jesse sono intenti a parlare d’affari. Ancora una volta Breaking Bad dimostra che per scrivere una storia avvincente non serve spiegare tutto e fa leva sulla memoria di noi spettatori inducendoci poco alla volta a ricordare la colpa di Walt nei confronti di Jesse, in modo da avere tutto sotto controllo quando assistiamo all’incontro, e, in maniera quasi hitchcockiana, vivere la stretta di mano tra Walt e il ragazzino in balia di una tensione costruita alla perfezione.
Immediatamente dopo aver cucinato la metanfetamina, Walt e Jesse sono protagonisti di quella che è probabilmente la scena madre dell’episodio, quella che scuote maggiormente la situazione tra i due: mentre sono seduti sul divano a guardare la tv, con una regia che dosa perfettamente le inquadrature in campo medio con macchina fissa e il fondamentale campo e contro campo, Walt inizia un discorso sulla verità e l’importanza di questa all’interno della famiglia. Alludendo al rapporto tra Jesse e Andrea e facendo riferimento a quello tra lui e Skyler, Walt dimostra come per essere un maestro della menzogna bisogna conoscere l’importanza della verità e, così come fa con Marie rispetto alla questione Ted, simula e dissimula un atteggiamento in cui le dimensioni di verità e onestà sono le prerogative principali. Allo stato attuale più che un rapporto è un massacro, è l’annientamento psicologico di un giovane inerme da parte di un genio del male. Ma Jesse ha dimostrato più volte di avere risorse nascoste sorprendenti e il passato irrisolto tra loro è lì pronto a innescarle, anche perché, per citare una famosa frase di Cechov: “se in un romanzo compare una pistola, prima o poi deve sparare”.

          Listen, Walter: just beacuse you shot Jesse James, don’t make you Jesse James”.

  Walter White è morto. Lo si sapeva da tempo. Oggi però è evidente che anche Heisenberg è morto e non è un caso se ormai da tanto tempo non compare il famoso cappello, simbolo iconografico quasi fumettistico della trasformazione in Heisenberg. Quello che c’è ora è un personaggio profondamente cambiato dalla morte di Gus, che per certi versi ha inghiottito e fatto proprio, un personaggio la cui vittoria nella battaglia contro l’avversario più duro ha avuto conseguenze devastanti sul suo ego, sui suoi comportamenti, sulla sua percezione di sé. La sua figura ha raggiunto dei livelli di complessità i cui paragoni possono contarsi sulle dita delle mani, in special modo dopo questa virata verso il male, quello assoluto, quello radicale, quasi ingenuo, apparentemente innato, banale e quotidiano, di arendtiana memoria.
Sebbene gli autori tentino di alleggerire i toni sottolineando i peccati di Walt inquadrandolo mentre mangia una mela come una Eva dei giorni nostri, la sua condizione è tutt’altro che semplice e tutt’altro che agevole da interpretare. Dopo aver ucciso Gus, Walt si trasforma in un gangster, non tanto per ciò che concretamente fa, ma per il modo di rapportarsi al prossimo. Una dimostrazione lampante si ha quando, relazionandosi ad uno degli addetti alla disinfestazione, invece di ringraziarlo per aver disattivato la telecamera nascosta nell’appartamento, si limita semplicemente a chiedergli il nome, come farebbe qualsiasi “capobastone” di qualsiasi clan e come siamo stati abituati a vedere in film e serie televisive aventi come soggetto la mafia italo-americana.
A rincarare la dose ci pensa una scrittura anche in questo caso eccezionale, che raggiunge una delle vette dell’episodio nella scena in cui lui e il figlio guardano il finale di Scarface di Brian De Palma. Tale accostamento non pone solo di fianco Walt e il gangsterismo cinematografico, ma associa direttamente i due protagonisti, entrambi disperati nella loro follia, entrambi schiavi del proprio ego, entrambi dei dead man walking. Quello che impressiona è la tranquillità con cui Mr. White opera il male, la semplicità con cui nel finale parla a Jesse e, utilizzando il riferimento allo sgozzamento di Viktor da parte di Gus in “Box Cutter”, minaccia il giovane socio terrorizzandolo.
Una puntata eccellente sotto tutti i punti di vista, dall’intreccio narrativo alle interpretazioni degli attori, ma che si distingue soprattutto per la regia di Adam Bernstein, che sforna scelte stilistiche di alta scuola: l’inquadratura in campo medio che ritrae Walt e Brock sul divano che si guardano; la dissolvenza incrociata tra gli spari della mitragliatrice di Tony Montana e la macchina conta soldi; la capacità di miscelare i generi dell’audiovisivo dimostrata con la sequenza della produzione di metanfetamina, una sorta di divertente e incalzante video musicale.

Di Attilio Palmieri
Fonte: seriangolo.it

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